Se il rock fosse una mano, le cinque dita sarebbero i Beatles, i Pink Floyd, i Led Zeppelin, i Rolling Stones e i Deep Purple. Poi le mani sono due e nella seconda ognuno ci mette chi vuole. Si, lo so, volevo scrivere una frase profonda e mi è uscita solo questa, ma il concetto rimane lo stesso: le band che ho citato, per quanto mi riguarda, sono state le più influenti della storia di questo genere musicale. Un paio di esse sono già state citate in questo sito a suo tempo, oggi, invece, vorrei focalizzare l’attenzione sui mitici Deep Purple.
I Deep Purple sono nati in Inghilterra nel marzo del 1968, dalle ceneri di un gruppo chiamato Roundabout, dopo una tournée di quest’ultimo in Germania. I fondatori sono il guitar-heroe Ritchie Blackmore, il tastierista John Lord e il bassista Nick Simper. Gli ultimi due avevano già suonato insieme anche nei Flowerpot Men (quelli dell’inno Hippie Let’s Go To San Francisco). Al trio si sono uniti il batterista Ian Paice e il cantante Rod Evans, entrambi reduci dai Maze.
La band così formata ha registrato e trovato notevole successo con il singolo Hush, cover del cantautore americano Joe South. Non molto tempo dopo, con solo 18 ore di registrazione alle spalle, è stato pubblicato Shades Of Deep Purple, lavoro ancora orientato verso un rock psichedelico e il pop. Oltre alla citata Hush, il disco contiene già alcune perle come la strumentale And The Address, la sbarazzina One More Many Rain e la progressiva Happiness/I’m So Glad, che come introduzione presenta un pezzo della suite sinfonica Sheherazade, del compositore russo Rimsky-Korsakov. Da notare anche la presenza di numerose cover, tra cui Help dei Beatles, qui dilatata e rallentata, e Hey Joe di Hendrix. L’album, fatto strano per l’epoca (siamo sempre nel 1968), ha suscitato clamore in America, ma è stato praticamente trascurato nella loro patria.
Nel 1969 il gruppo ha rilasciato due lavori, con i quali ha spostato il sound verso un rock più ricercato: The Book Of Taliesyn e Deep Purple. Sul primo spiccano le splendide versioni di River Deep Mountain High di Ike & Tina Turner (anche in questo caso il brano inizia con un accenno di musica classica, ovvero l’Intro di Così Parlò Zarathustra di Richard Strauss), di We Can’t Work It Out dei Beatles e di Kentucky Woman di Neil Diamond.
In Deep Purple, invece, troviamo il rifacimento di Lalena, brano del folksinger Donovan, la dura The Painter e Why Didn’t Rosemary, entrambe preludio dei tempi che verranno, nonché la magnifica suite in tre sezioni April, 12 minuti di pura magia.
A quel punto, per trovare il successo anche in madre patria, i Purple hanno cambiato direzione assumendo un suono più duro e compatto. Evans e Simper se ne sono andati, lasciando il posto a due personaggi tecnicamente più dotati: il vocalist Ian Gillan e Roger Glover, che avevano militato insieme negli Episode Six.
Con la nuova line up, probabilmente la più celebre della loro lunga storia, i Deep Purple hanno registrato un disco dal vivo nel quale s’incontrano il rock e la musica classica: Concerto For Group and Orchestra. Nato da un’idea di John Lord, l’ambizioso lavoro è stato registrato presso la Royal Halbert Hall di Londra in compagnia della Royal Philarmonic Orchestra. Esso è formato da una sinfonia in tre movimenti più un paio di brani, tra i quali spicca la famosa Child In Time.
Gli anni ’70 si sono aperti con uno di quei capolavori che, nonostante siano passati oltre 40 anni, non smettono di affascinare. Si tratta di Deep Purple In Rock, con il quale i Deep Purple hanno iniziato la loro marcia verso la fama internazionale. Dentro la copertina che riprende l’immagine dei presidenti USA scolpiti nella roccia del monte Rushsmore (naturalmente con i componenti dei Deep Purple al posto di Washington e soci) si trova un disco eccezionale, costituito da un rock potente che detterà le regole per le generazioni future. I brani sono uno più bello dell’altro: la trascinante Speed King, le altrettanto dirompenti Bloodsucker e Flight Of The Rat, la psichedelica Hard Lovin’Man e, soprattutto, la pura melodia della celeberrima storia di un perdente Child In Time, la quale è stata al centro di una controversia a causa della sua somiglianza con Bombay Calling degli It’s A Beautiful Day.
Gillan possedeva la voce più potente della storia del rock e dal vivo sapeva infuocare le platee. Blackmore era il chitarrista funambolico, che si dilettava con i wha-wha e gli assoli distorti. Lord portava in dote la sua esperienza di classica e blues, mentre Glover e Paice erano due motorini inesauribili e precisi. La loro forza però, stava nell’amalgama sonora, che ha saputo abbattere tutte le barriere del rock, probabilmente mai superate da nessun altro. Con questo disco i Deep Purple hanno dimostrato di essere non solo il gruppo più completo e originale di sempre, ma dei veri e propri pionieri, che si sono spinti dove nessuno, sino a quel momento, si era mai avventurato.
Il successo è proseguito immutato anche l’anno seguente con Fireball, un lavoro meno granitico del precedente, con un suono più pulito che sonda in tutti gli anfratti dell’hard rock. Tra le canzoni, la veloce title track su tutte, ma anche la bellissima Fools, che con il suo alternarsi di toni bassi e alti è costruita sulla falsariga di Child In Time, The Mule, che si farà conoscere dal vivo per il suo lunghissimo assolo di batteria, e la caustica No No No, dotata di una ritmica blues-rock.
Nel 1972 è uscito Machine Head , il disco che contiene il brano più famoso dei Deep Purple, quella Smoke On The Water il cui riff è conosciuto anche dai sassi. L’album, però, non finisce lì. Highway Star è un’iniezione di energia pura, mentre Lazy è un capolavoro che deve tutto al blues e che contiene uno degli assoli di chitarra più belli dell’intera discografia del gruppo. Stupende sono anche Space Truckin’, Never Before, Pictures Of Home e la struggente When A Blind Man Cry.
Il momento magico dei Purple è stato cristallizato in uno degli album live più belli di sempre, Made In Japan che ha saputo catturare tutta l’energia di questo gruppo e la sua capacità d’improvvisare, sancendone così l’immortalità.
Una leggera flessione il gruppo l’ha ottenuta con il successivo Who Do We Think We Are?, disco nel quale si denota una piccola stanchezza creativa, anche se brani quali Woman From Tokyo, Rat Bat Blue, con il suo funambolico assolo centrale di tastiera, Smooth Dancer e la blueseggiante Place In Line valgono da sole il prezzo dell’acquisto.
A quel punto, però, i Deep Purple si sono trovati ad affrontare un momento duro: Gillan e Glover hanno lasciato la band per intraprendere nuove strade. Il basso è stato allora affidato a Glen Hughes, il quale era anche un ottimo singer, mentre dietro al microfono è arrivato quel David Coverdale dalla voce calda e potente, che troveremo in seguito nei Whitesnake.
Burn, datato 1974, presenta un rock grezzo, che fa quasi pensare ad un ritorno ai tempi di In Rock, ma ascoltandolo bene si riscontrano delle forti venature blues e funky introdotte dai nuovi arrivati. Il malinconico blues di Mistread è stupendo, anche se il pezzo di maggior successo è senza dubbio la poderosa title track, dotata di un riff micidiale tra i più clonati nella storia del rock. Molto belle sono anche What’s Goin’ On Here e Lay Down, Stay Down.
Stormbringer, rilasciato sempre lo stesso anno, è un disco più spento rispetto al predecessore. Il gruppo si stava sempre più allontanando dall’hard rock che li aveva resi famosi per intraprendere la strada verso il soul e il funky. Soldier Of Fortune è comunque una ballad superlativa, la migliore mai composta dai Purple, nella quale Coverdale ci mette un sacco di anima e di passione. Da sottolineare anche You Can’t Do It Right, Hold On, e Strombringer.
Un’altra amara sorpresa attendeva i Deep Purple dietro l’angolo all’inizio del 1975: l’abbandono di un insoddisafatto Ritchie Blackmore. L’asso delle sei corde ha lasciato per formare i Rainbow, dove ha trovato di nuovo al suo fianco Roger Glover. L’ultima sua apparizione con il gruppo è il concerto tenutosi il 7 aprile a Parigi, ben documentato su un prezioso doppio album.
Paice e Lord, gli unici rimasti della formazione originale, hanno quindi reclutato lo sconosciuto chitarrista americano Tommy Bolin. Purtroppo, il periodo di gloria di questa promessa della chitarra è stato troppo breve. Con i Purple, infatti, Tommy ha pubblicato soltanto un album da studio, Come Taste The Band, un lavoro che trova la propria forza nella tirata opening track Comin’ Home, in Lady Luck, nella power ballad You Keep On Movin’ e nei sei minuti dell’articolata This Time Around, che a una prima parte prettamente pianistica ne alterna una seconda più dura, sostenuta dalla chitarra elettrica di Bolin.
I Deep Purple hanno poi intrapreso un lungo tour mondiale, al termine del quale, nel luglio del 1976, è stato annunciato il loro scioglimento. A dicembre dello stesso anno, dopo un concerto di spalla a Jeff Beck, Bolin è morto per un’overdose.
Lo scioglimento dei Deep Purple ha lasciato spazio ai singoli membri d’intraprendere carriere personali, dove spiccano i Whitesnake di Coverdale, nei quali hanno fatto un’apparizione anche Lord e Paice.
La ricostituzione della formazione classica dei Deep Purple, quella del periodo d’oro che va dal 1969 al 1973, la cosiddetta Mark II, è stata ispirata dall’uomo che a suo tempo ne aveva decretata la fine denunciandone la staticità creativa, Ian Gillan. Sul finire del 1982, infatti, il cantante si è incontrato con Lord e gli ha proposto di riunire i vecchi compagni per un progetto a lungo termine, che non fosse una semplice mossa speculativa, ma che prevedeva nuovi album e una serie di concerti. Ian Paice, che all’epoca lavorava con l’ex Thin Lizzy Gary More, ha aderito immediatamente. Gillan è volato quindi negli Stati Uniti per contattare Glover e Blackmore, i quali si sono dichiarati entusiasti. Il chitarrista, però, ha dovuto posticipare la rinascita del gruppo per portare a termine i suoi impegni con i Rainbow, dei quali si sarebbe liberato solo nel 1983. Per ammazzare l’attesa Gillan si è unito momentaneamente ai Black Sabbath, registrando con loro un album: Born Again. Ma questa è un’altra storia.
La resurrezione dei Purple è datata aprile 1984, quando in uno chalet del Vermount è stato firmato il contratto con la Polygram. Il primo lavoro della band s’intitola Perfect Strangers. Atterrato nei negozi nell’ottobre dello stesso anno, esso ha regalato ai fans l’inconfondibile sound di questi maestri del rock duro. Non si tratta però di un revival carico di nostalgia, bensì di un disco fresco e al passo con i tempi. Knockin’ At Your Back Door, Perfect Strangers, la malinconica Wasted Sunset, l’epica Son Of Alerik e Hungry Daze sono entrate di prepotenza a fare parte dei classici dei Deep Purple, aggiungendosi al loro repertorio live.
A proposito di live, ogni tappa del tour che è seguita al disco ha registrato il sold out e il ritorno in Inghilterra come headliner al Festival di Knebworth, nel 1985, è stato a dir poco trionfale.
Nel 1987 è uscito The House Of Blue Light, che presenta un suono più artefatto e innovativo rispetto al lavoro precedente. Roger Glover l’ha descritto “un album sperimentale su base Blues”. Il mio pezzo preferito è senza dubbio Strandeways, ma anche Bad Attitude, un rock pieno di energia che si apre con l’organo di Lord, ha il suo bel perché. E cosa dire di Mad Dog, con il suo riff di chitarra orecchiabile, e dell’epica The Spanish Archer, o ancora della veloce Dead Or Alive? Magnifiche!
L’anno seguente è stato pubblicato il disco dal vivo Nobody’s Perfect, nel quale, oltre ai concerti americani e norvegesi, è immortalata una versione di Black Night parzialmente registrata all’Arena di Verona.
È stato nel 1989 che Gillan e Blackmore sono tornati ad avere contrasti che hanno spinto il primo a lasciare nuovamente la band. Per sostituirlo, Richie ha chiamato il suo cantante ai tempi dei Rainbow Joe Lynn Turner (in quel momento aggregato al gruppo di Malmsteen) con il quale nel 1990 i Deep Purple hanno registrato Slaves And Masters. È questo un album mediocre, orecchiabile al punto giusto, ma non esplosivo, dove fanno bella mostra di se canzoni quali Fire In The Basement, con il suo famoso intro di chitarra, la ballad Love Conquers All e King Of Dreams.
I Deep Purple, però, non erano contenti della situazione, così Lord, Paice e Glover hanno chiesto a gran voce il ritorno di Gillan. Alla fine Blackmore ha ceduto e la Mark II, per la terza volta, si è ricostituita. Il risultato è The Battle Rages On, un lavoro che ha nella dura title track, nel rock-blues di Ramshackle Man, in Solitaire e, soprattutto, in Anya i propri punti di forza. Il disco, però, ha risentito molto del fatto che le parti vocali erano state preparate per essere cantate da Turner, e anche del riaffiorare dei dissapori tra Blackmore e il resto della band, che sono finiti con l’abbandono definitivo del chitarrista nel bel mezzo del tour di supporto all’album. A sostituire Ritchie, che è tornato a registrare un album con i Rainbow per poi dedicarsi alla musica medievale con i Blackmore’s Night, è stato momentaneamente Joe Satriani.
Il sostituto ufficiale di Blackmore lo si è trovato nell’ottimo Steve Morse, che ha portato in seno al gruppo le sue esperienze con la musica fusion.
Nel 1986 è stato pubblicato Purplendicular, un lavoro ambizioso, potente e ben strutturato, dove il nuovo chitarrista ha la possibilità di non fare rimpiangere chi lo ha preceduto. La critica è unanime nel ritenere questo un ottimo disco e canzoni quali Ted The Mecanic, Hey Cisco, Loosen My String, Sometimes I Feel Like Screaming, la ballad The Aviator e Somebody Stole My Guitar ne sono una degna testimonianza.
Lo stesso anno è uscito anche Live At The Olympia, prima prova con Morse sul palco, dove i vecchi classici sono ben amalgamati con gli ultimi successi.
Il seguente album da studio, invece, è datato 1998 e si chiama Abandon. È un disco più sperimentale rispetto Purplendicular, meno orecchiabile, ma non per questo meno bello. Da citare brani quali Don’t Make Me Happy, stupendo blues che nel suo incedere malinconico ricorda vagamente Mistread, Fingers To The Bone, 69, Any Fule Kno That, con il suo approccio rap, e la rivisitazione di BloodSucker, brano presente sull’album In Rock e qui ribattezzato Bludsucker.
Purtroppo Abandon è stato l’ultimo album in cui ha lavorato John Lord. Dopo 34 anni di straordinaria carriera, nel 2002 il tastierista ha deciso che era giunto il momento di intraprendere una strada personale, dedicata alla musica orchestrale. A quel punto Ian Paice è rimasto l’unico ad avere suonato nel gruppo inglese dall’inizio sino ai giorni nostri. Il nuovo tastierista è stato Don Airey, il quale aveva già avuto rapporti con i vari membri dei Deep Purple per avere lavorato nei Rainbow e nei Whitesnake.
La nuova line-up, Gillan, Glover, Morse, Airey e Paice, ha registrato nel 2003 l’album Bananas. Chi pensava che l’uscita di scena di Lord avrebbe influito sulla vena compositiva della band si sbagliava di grosso. Il disco, ricco d’idee, innovativo e allo stesso tempo legato al passato del gruppo, propone tracce nel classico sound dei Purple, unite ad altre che portano una ventata di freschezza e novità. La metallica opening-track House Of Pain, la stupenda power ballad Walk On, la progressiva title track, la “funkegiante” Pictures Of Innocence, Haunted, nel quale Gillan duetta con la brava Beth Hart, sono tutti pezzi meravigliosi, che non fanno pensare all’età media dei componenti di questo gruppo. A chiudere il disco un cameo strumentale, Contact Lost, un minuto e mezzo per sognare con la chitarra di Morse e la tastiera di Airey
Il diciottesimo e sino ad ora ultimo lavoro da studio dei Deep Purple risale al 2005. Si tratta di Rapture Of The Deep, un altro successo che segue la linea tracciata da Bananas, anche se è meno sperimentale. Molto bella è la title track, con il suo andamento orientaleggiante, ma anche Wrong Man, la ballad Cleary Quite Absurd, Junkyard Blues, il ritmo trascinante di Kiss Tommorrow Goodbye, il blues di Don’t Let Go e la suite finale Before Time Began, la canzone più innovativa dell’album.
A quanto pare i Deep Purple non intendono fermarsi e hanno annunciato già un nuovo album, che dovrebbe uscire il mese prossimo (febbraio 2011). È incredibile come nella loro lunghissima carriera questi “ragazzi” abbiano accusato pochi passi falsi e siano riusciti a passare indenni attraverso ogni crisi che si è presentata. Essi hanno inventato un genere, l’Heavy Metal, quindi hanno cambiato stile secondo le formazioni che si sono susseguite, tenendo come punti saldi la notevole abilità tecnica, la professionalità, la melodia raffinata anche nei brani più tirati e l’energia. Nella loro musica si ascolta di tutto, dal rock al blues, dal soul al funk, dal jazz alla classica, addirittura il rap, tanto da essere classificati come la band più completa di tutti i tempi. Insomma, si susseguono le generazioni e ognuna di esse ha amato questi “pilastri del rock” e sono convinto che nessuno smetterà mai di farlo, perché la loro musica, anche quando loro decideranno di fermarsi definitivamente, continuerà ad esistere per sempre.
Ho 56 anni ed amo la musica classica (adoro tchaikowski e mozart) e poi il rock. Ma non il rock, il rock rock! Avevo 16 anni quando rimasi folgorato dal IV dei Led e da Made In Japan dei Deep. L’anno successivo assistei al concerto che i Deep svolsero a Napoli e da allora non c’è giorno in cui non ascolti qualche loro pezzo. Ora, mentre scrivo, sto ascoltando, per esempio, il live “Live In London” del 1982. Che dire? Che il giornalista ha ragione. Ad ascoltare oggi in modo asettico (?) i loro pezzi, si resta colpiti dal fatto che sarebbero comunque odierni come se fossero stati costruiti l’altro ieri. Questa è musica che da poco si studia nei conservatori come il jazz ed il blues e diverrà musica senza tempo, perchè la buona musica è appunto, eterna. Tra i gruppi citati, metterei anche gli AC/DC, i Metallica e gli Iron Maiden. Hanno però il difetto che sono venuti dopo e quindi hanno potuto usufruire del sentiero tracciato dai grandi come i Led, i Deep, i Rolling ecc. Tolto però questo difetto (ma nessuno ha meriti o demeriti per esser nato prima o dopo!) anche loro meritano di essere citati come i citati grandi caposcuola.